Ad un amico

Correva giù pesante il ticchettio dell’orologio quel pomeriggio.
Le parole erano gocce di piombo sul muro. Nessun rumore, nessuna voce, né un senso ragionevole dove rinchiudere il respiro in cerca d’ossigeno.
La luce era un particolare eccessivo che fabbricava altre ombre, l’ orrore amplificava l’angoscia giocando a braccio di ferro con il coraggio.
Negli occhi ancora i flash azzurri che roteavano. L’allontanamento era una condizione necessaria, eppure, non muovevo un passo.
Setacciata dentro una cesta, la vita si era chiusa come una finestra spinta dal vento, un tramonto, un alba, chi ricordava in quel momento cosa fosse, e quale giorno a seguire sarebbe arrivato, l’unica cosa che tornava era la notte appena trascorsa.
Nel marciapiede della strada la sabbia era ancora rossa.
La morte, quella maledetta, non si era riusciti a schiodarla dal cemento.
In un silenzio irreale le mani strappavano gli occhi dal viso, non si era scomposto neppure il pianto davanti a quella sottigliezza che era la tua vita, distrutta su un muro schizzato di sangue. Una vita vissuta come un fiume in piena sotto un ponte, vista panoramica sul canale torbido della fretta.
Un temporale improvviso, petali di rose lasciati a marcire davanti a una foto che non si potrà più guardare senza rivivere la tua vita.